Non ricordo quanti anni siano passati dall’ultima volta che abbia ascoltato un disco di Elton John, credo che siano più di venti, probabilmente era il periodo in cui la sua discografia stava subendo il processo di rimasterizzazione in cd. Penso che molti abbiano in mente la figura del Sir Reginald della parte finale dei settanta e degli anni ottanta, quindi grassa, pelata, bolsa e palesemente orientata verso un pop da classica che ben poco aveva a che vedere con il musicista degli esordi. Infatti c’è stato un tempo in cui Elton era un giovane pianista cappelluto, timido e riservato e romanticamente innamorato del sogno americano. Ho letto recentemente una sua intervista in cui ammetteva candidamente che non vedeva l’ora che uscissero sul mercato dischi di The Band, dei gruppi di San Francisco (Jefferson Airplane, Grateful Dead), Buffalo Springfield, erano per lui momenti di grande godimento musicale oltre che fonti di ispirazione.
La voglia di scrivere attorno alla sua figura è dovuta, anche, alla visione del film “Rocketman” di alcune settimane fa. La sua infanzia non è stata affatto facile, e il pessimo rapporto col padre lo segna profondamente. Frequenta la Pinner County Grammar School fino all’età di 15 anni, quando inizia a farsi chiara in lui l’idea di intraprendere una carriera in ambito musicale, sconsigliata e osteggiata dal padre. Dopo l’undicesimo anno di età riceve una borsa di studio per frequentare la prestigiosa Royal Academy of Music di Londra, della quale non completerà mai i corsi, pur conseguendo studi regolari e completi. Inizia suonando Bach, Mozart, Beethoven, Fryderyk Chopin e cantando come tenore nel coro dell’accademia durante il sabato. È, però, un mondo che non lo affascina, vorrebbe entrare nell’universo del rock’n’roll, quando suona si ispira, dal punto di vista scenico, ai grandi Little Richard e Jerry Lee Lewis. Uno dei momenti più significativi per la carriera del nostro è l’incontro con Bernie Taupin, un paroliere che ha bisogno che qualcuno metta in musica i suoi testi. L’intesa fra loro si rivela perfetta: è l’inizio di un lungo sodalizio umano e professionale, durato per quasi tutta la loro carriera.
Molto probabilmente nessuno si immaginerebbe che il disco prescelto per questa puntata di “Ripeschiamoli” sia il misconosciuto “Tumbleweed Connection”. Di tutti i suoi lavori usciti nella prima metà dei settanta, questo è il più americano, un’opera piena di chitarre acustiche nonché di riferimenti storico culturali, con tanto di saloon in copertina. Questo album è il terzo della sua discografia ed è pubblicato quando lui è ancora ventitreenne. È un lavoro in cui non si trova una stonatura, qualcosa fuori posto: la scrittura è superlativa, la voce forte e ispirata, pianismo di lucente brillantezza, testi di grande fascino ad opera di Taupin e arrangiamenti orchestrali di eccellente qualità creati dall’altro collaboratore storico Paul Buckmaster. La vena pop è appena accennata e forse è questo il motivo principale per cui il lavoro non riscosse grande successo oltre al fatto che manca l’hit single in grado di trainare nel tempo le vendite. È stato pubblicato a pochi mesi di distanza da “Elton John”, le canzoni contenute  furono registrate nello stesso periodo di quelle che entrarono a far parte dell’album precedente. Ma qui l’impronta è diversa, è un disco che si ispira al West americano e ha come punto di riferimento un gruppo molto amato da Elton e Bernie, The Band. È difficile trovare una canzone che si elevi sulle altre, forse, in alcuni momenti, propendo per “Love Song” di Leslie Duncan, all’epoca corista di Elton e cantautrice emergente. In questo pezzo John canta e basta. C’è un mirabile arpeggio di acustica di Leslie, mentre le due voci si armonizzano su una struggente ed indimenticabile melodia folk, mille miglia lontano da quello che siamo soliti ascoltare dai brani del leader.
Altro momento da ricordare è “Burn down the mission” che alterna liricità e coinvolgimento fisico, con un piano che ha ispirato in seguito tanti altri musicisti, e i pieni orchestrali che si alternano al solismo della tastiera. Che dire di “Amoreena”, ballata miracolosa che procede a strappi fino al refrain di gran gusto ed estremamente deciso. Si rimane estasiati di fronte alla perla melodica di “My father’s gun”: una canzone introspettiva e malinconica, momento più alto di una serie di brani dallo stesso sapore contenuti in questa raccolta quali le eccellenti “Come down in time” con una voce di forte suggestione e “Taking your soldier” dalla melodia immortale.
Se Elton John avesse continuato su questa strada sicuramente non sarebbe diventata una superstar ammazza classifiche capace di piazzare hit per parecchi anni in tutto il mondo, ma la sua considerazione come musicista ed interprete avrebbe avuto ben altro spessore!!!


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