ELBOW – ‘Flying Dream 1’ cover albumUn disco «privo delle solite linee guida creative», ispirato – sostiene Guy Garvey – dalla grana ineffabile di lavori come “Spirit Of Eden”, “Solid Air”, “Astral Weeks” e “Is this Desire?”. Gli Elbow ripartono da una mancanza di coordinate prestabilite, nel tempo fuori di sesto della pandemia, a venti anni dall’esordio “Asleep In The Back”, due decenni durante i quali hanno pubblicato con disarmante regolarità (ogni due/tre anni). Anche il nuovo e nono album “Flying Dream 1” non fa eccezione: esce infatti due anni, più o meno esatti, dopo il buono e abbastanza fortunato “Giants of All Sizes”, fatto salvo l’intermezzo estemporaneo di “Elbowrooms”, sessioni estemporanee pubblicate su Youtube durante il primo lockdown.

Queste ultime rappresentano il germoglio delle nuove composizioni, almeno dal punto di vista metodologico: idee scritte individualmente e quindi scambiate con gli altri, a distanza, senza una direzione o un’idea complessiva a fare da cornice, incise quindi nei propri studi di Manchester e infine – ad agosto 2021 – in una location insolita ma senza dubbio splendida come il Royal Theatre di Brighton. Il risultato sono dieci tracce intime e oniriche, le melodie luminose strutturate su orchestrazioni rarefatte e attraversate da vibrazioni jazzy.

Gli Elbow non si sono mai allontanati dalle loro influenze, né dal loro desiderio di scrivere grandi ritornelli da inno progettati come tarli da festival. Adorali o detestali, è probabile che tu possa ricordare comodamente il riff di apertura di “Grounds for Divorce” del 2008.

Il risultato è una raccolta pacata di vivide vignette, guidata da un pianoforte caldo e dalla sincerità ben affinata di Garvey. Wilson Atie, Adeleye Omotayo e Marit Røkeberg di London Contemporary Voices sono bellissime aggiunte alla title track di apertura dell’album, mentre Sarah Field aggiunge qualcosa di speciale su clarinetti e sassofoni in “After The Eclipse” e “The Seldom Seen Kid”.

La formazione ha evitato di discutere della propria vita personale durante il processo di scrittura, parlando invece tra loro attraverso questi frammenti di canzoni. Il disco è pieno di figure solitarie che si affacciano su qualcosa di vasto e inconoscibile; ‘È un uccello? È un aereo? O è un getto d’acqua, la bella anima di un guerriero?’ si chiede Gus (“Is It A Bird”), mentre altrove ci sono ‘cieli che si aprono all’acqua allagata’ (“Six Words”), e ‘ombre basse e luminose di febbraio’ che cadono mentre una donna canticchia una melodia dalla radio, mentre a distanza possiamo ‘ascoltare una scuola’ durante i ‘giorni bui e amari’ (“Calm and Happy”).

Assenti dall’album sono gli ampollosi inni per cui i nostri sono probabilmente più conosciuti. Questo è un gradito respiro, che permette alla musicalità del gruppo di brillare. Queste 10 tracce sono malinconiche senza scivolare nella noia, armonicamente interessanti senza complicare eccessivamente il suono, e lo spazio di registrazione dà peso a quanto bene i musicisti suonano insieme – grandi e luminosi quando devono essere, ma, soprattutto, contemplativi, spaziosi e caldi.

Le influenze citate sono ovunque: i toni miti del pianoforte di Chet Baker persistono ovunque e c’è un accenno occasionale degli armonici di Van Morrison. La band non riesce mai a raggiungere la grandezza, tuttavia, e si affida troppo a queste modalità precedentemente stabilite. C’è più atmosfera che melodia qui, ma, mentre Elbow non riesce mai a eguagliare le loro influenze divine, ci sono momenti in cui questa ritrovata moderazione ripaga!!!


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