“Driving Through the Aftermath of a Storm on a Clear Day” di David Allred è un piccolo disco strano e avvolgente. Le 11 composizioni dell’LP – che si trovano da qualche parte vicino all’intersezione tra musica da camera post-classica e esplorazioni più ambientali – hanno un effetto calmante sull’ascoltatore che è quasi istruttivo.
Allred, inoltre, dettaglia accuratamente i propri pezzi con particolari meravigliosi e spesso autoriflessivi che portano ulteriormente a casa quel punto. In “Wave”, la sobria apertura dell’album, e la meravigliosa “Lizard In The Spring”, è il sussulto dei vecchi tasti del pianoforte, come se fossimo seduti proprio lì con lui, tanto una parte del processo creativo come la placenta. In “Driving”, a 4:43 l’offerta più lunga del disco, è la registrazione nella camera dell’eco della macchina che sta registrando il procedimento.
In “Dat Hibiscus”, è il suono del manico di una chitarra scricchiolante e una voce quasi indistinguibile dal synth wash che lo avvolge. Ma David, che non è un novizio, supera ogni espediente con pezzi che sono semplici a prima vista, ingannevolmente profondi e ampi al secondo ascolto, e poi decisamente devastanti. Se non altro, “Driving Through the Aftermath of a Storm on a Clear Day” è all’altezza del suo titolo: questa è musica creata all’interno, ma in qualche modo al di sopra o all’esterno di un mondo tumultuoso, dove qualcosa di austero indugia, ma ogni traccia del conflitto è semplicemente una grafia sul muro.
Merita una menzione la narrativa tra le composizioni dell’LP. Sebbene sia difficile decifrare se le 11 canzoni, in effetti, formino un circolo narrativo, Allred rivisita temi e motivi regolarmente, conferendo alla raccolta vicinanza al processo – la sensazione di vederne i frammenti svolgersi quasi come un partecipante. Ma per quanto la diteggiatura staccata di “Potato” alla chitarra assomigli al ritmo del piano in “Daylight”, il nostro mantiene le cose in modo allarmante, ancora una volta, con i piccoli dettagli; in “Potato”, c’è una serie di archi sul sintetizzatore che mette gli ascoltatori in ginocchio. Poi, c’è “Sweet Potato”. Anche se non è necessariamente il movimento più completo del disco, c’è una traiettoria lineare e un senso di crescita che ne sottolinea la maturità. Circa un minuto dopo, c’è questa pausa in cui David ritorna a note acute morbide e svolazzanti e gli accordi vengono martellati con una determinazione dolorosa: è roba emotiva e uno dei migliori momenti di chiarezza musicale in un’offerta piena di simili situazioni. “Sweet Potato” prosegue poi in una meravigliosa ripresa per pianoforte finta e vivace che, se non si tratta di un’infanzia che sta svanendo, non so cosa sia.
David Allred non è un principiante e non suona per niente come tale. Ha pubblicato dischi costantemente da quando “Old Home”, il debutto da solista, è arrivato nel 2013. È difficile dire dove si inserisca questo rilascio nelle narrazioni scritte su e tra le versioni precedenti. Una cosa è certa, però: chi lo incontrerà per la prima volta qui sarà completamente sbalordito!!!
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