Sono trascorsi più di quindici anni da quando i Black Ox Orkestar hanno pubblicato i loro album di riferimento, “Ver Tantz” (2004) e “Nisht Azoy” (2006), due lavori che hanno navigato nell’intersezione dark folk/post rock con un genuino senso dello scopo e distinte basi sonore. Emergendo dalla scena indie di Montreal, i quattro membri, Thierry Amar (contrabbasso), Scott Gilmore (voce, piatti, piano e chitarra), Gabriel Levine (clarinetti, chitarra) e Jessica Moss (violino), hanno deciso di abbracciare le proprie radici attraverso la creazione di musica, distillando la forza pura e l’emozione del folk tradizionale yiddish e balcanico nel loro suono politicamente potente e viscerale.
Poi, inevitabilmente, le forze della vita hanno cambiato rotta. Mentre Amar e Moss sono diventati attori chiave nella scena classica post-punk/avant di Montreal con Godspeed You Black Emperor e Thee Silver Mt. Zion, oltre a numerose altre collaborazioni e uscite da solista, Levine e Gilmore si sono ulteriormente allontanati da qualsiasi legame con la musica rock. Levine è entrato nel mondo accademico a Toronto per insegnare e ricercare teatro e ‘performance art’, mentre Gilmore si è trasferito a Washington DC ed è diventato un avvocato per i diritti umani.
Quindi, dal punto di vista logistico, qualsiasi riunificazione di Black Ox non sarebbe stata semplice. Inoltre non si poteva immaginare che queste quattro persone, così spinte da un appassionato senso dello scopo, si riformassero a meno che non fossero sicure di poter portare nuove prospettive in questi tempi turbolenti. Il loro terzo disco dopo la pausa, “Everything Returns”, disponibile ora su Constellation, conferma enfaticamente proprio questo, Black Ox Orkestar, chiaramente, ha ancora qualcosa di importante da dire.
Le fondamenta della loro nuova musica possono continuare ad attingere a melodie tradizionali, ma la band rimane impegnata a deviare dalle riproduzioni pedanti o dalla blanda fusione. L’apertura, “Tish Nign”, fornisce un benvenuto solenne, ma caloroso, la melodia straziante che si fa ripetutamente presa se cantata in comune o liberata dal violino in lacrime di Moss. C’è un focus qui sul semplice e vero, un’insistenza nel bloccare lo spirito mistico della melodia originale. “Skotschne”, tratto dalla stessa collezione degli anni ’20 del musicologo ucraino Moishe Beregovski, mostra la sensibilità sonora contemporanea del quartetto mentre facilitano i vecchi passaggi in avanti. Le bramose armoniche degli archi aggiungono un brivido inquietante al pattern dei piatti, mentre il percussionista ospite, Pierre-Guy Blanchard, porta una libera imprevedibilità improvvisativa alla processione.
Il gruppo ha riconosciuto che l’approvvigionamento di materiale tradizionale così intrigante nel mondo saturo di Internet di oggi è radicalmente diverso dai loro precedenti scavi nelle biblioteche e dallo scambio di nastri, ma sono rimasti diligenti nel trovare quelle pepite. Ovviamente per quanto impressionanti siano queste ricche scoperte, è il modo di reinventare che è così distintivo. La ragione di tanta dedizione a questi brani di eredità è che sono il fondamento per la profondità e la risonanza degli originali di Scott Gilmore che completano il resto di “Everything Returns”. È sbalorditivo rendersi conto che è stato lontano dalla scrittura per così tanto tempo quando incontri il potere di queste nuove tracce. C’è stato anche un cambiamento strumentale con il cantautore che usa il pianoforte in modo più esteso qui enfatizzando, insieme all’introduzione di Levine del clarinetto basso, la ‘chanson gravitas’ che cova sotto i sentimenti.
Quindi sì, questa è musica con un’intenzione seria rafforzata da brani come la profonda ballata “Mizrakh Mi Ma’arav” che dà voce all’esperienza devastante del rifugiato nel tempo e “Epigenetik” che solleva le questioni del trauma generazionale in un tango complesso e dolorante. Ma soprattutto i nostri segnalano anche la speranza attraverso il cambiamento. Il loro lamento finale, la semplice e crudamente bella “Lamed – Vovnik” potrebbe trovare uno stanco Gilmore che riconosce ‘un casino e basta, tutto si piega’, ma c’è ancora un suggerimento, mentre il cembalo risuona, che qualcosa di più comune e giusto lo farà emergere dalla caduta. Come nota graficamente il cantautore, inevitabilmente ‘gli addetti alle pulizie vengono dopo il sipario’.
Il presente sforzo individua Black Ox Orkestar forse alla fine o forse all’inizio di un altro ciclo. Qualunque cosa accada, l’importanza di questo disco rimarrà in quanto porta un’integrità e un’intuizione che sono rare. Le band possono riunirsi per convenienza o per noia, affamati dei bei tempi o per una ripresa dell’ego, cercando di saldare vecchi conti o fatture non pagate. Per questa formazione, passare attraverso movimenti così rudimentali non è mai accaduto!!!
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