Il suono che definisce la musica di Beth Orton non ha nulla a che fare con il genere. La cantautrice britannica non è mai stata davvero legata ad una scena oppure ad uno spazio musicale specifico, la sua musica si intreccia con l’elettronica big beat e la psichedelia vivace, il folk rock inglese barocco e il downtempo caldamente atmosferico.
Prima dell’uscita del suo debutto nel 1996, “Trailer Park”, Orton ha collaborato con The Chemical Brothers e da allora si è trovata in buona compagnia, i suoi altri collaboratori tra cui William Orbit e Andrew Hung di Fuck Buttons, che le hanno prestato alcuni trattamenti sonori e trame per il disco del 2016, “Kidsticks”. Ma il suono caratteristico di Beth è semplicemente quello della sua stessa voce, uno strumento versatile che trasmette sia un calore confortante che vaste profondità emotive allo stesso modo, condito e portatore di una certa gravità sin dal momento in cui la maggior parte di noi l’ha sentita cantare: una sorta di stanchezza del mondo e saggezza guadagnata da una vita atipica e avventurosa, che ha incluso, tra le altre cose, trascorrere tre mesi in Thailandia vivendo come suora all’età di 19 anni dopo la morte della madre.
È la voce stessa della nostra, letteralmente e figurativamente, che guida il suo settimo lavoro, “Weather Alive”, il suo primo per la Partisan Records e la fine di un intervallo di sei anni tra i dischi. Il primo rilascio in cui è accreditata come produttrice principale, “Weather Alive“ unisce impulsi creativi disparati, ma complementari, che ne hanno guidato la carriera fino ad ora, ma le hanno dato nuove strade attraverso le quali esplorare e scatenarsi, con alcuni svolazzi strumentali aggiuntivi forniti da musicisti che collaborano come Alabaster dePlume, il batterista Tom Skinner dei The Smile/Sons of Kemet e Tom Herbert degli The Invisible. È un’esperienza di ascolto ricca di dettagli e meravigliosamente liberatoria, un percorso ispirato di melodia e vortice sonoro che spesso sembra che la musica abbia preso vita propria.
Beth ha scritto le otto canzoni dell’LP con mezzi semplici e scheletrici, creando melodie su un pianoforte economico insieme alla propria stessa voce. Questo alla fine è diventato il punto di partenza per una brillante gamma di arrangiamenti coinvolgenti e brillanti esplorazioni stilistiche. Ma mentre strumentisti come dePlume e Skinner suonano apparentemente all’interno del terreno un po’ sciolto del jazz, la raccolta non è così rigorosamente definita. La title track di apertura evoca gli ultimi dischi dei Talk Talk nella sua sconfinata espansione incontrollata e nelle sue incantevoli possibilità, con la cantautrice che descrive una sorta di esperienza spirituale nell’accettare qualcosa al di fuori del suo controllo. Questo non è jazz, ma la sua dissoluzione e convergenza sembra il risultato di una specie di reazione chimica prodotta da strutture meno rigorosamente definite, l’esecuzione vocale di Orton – a volte slanciata e melliflua, a volte un sussurro stridulo – assume occasionalmente una qualità improvvisata.
Più di ogni altra cosa, “Weather Alive” è definito dalla propria libertà, dalla gioia e dalla vivacità di questi brani che derivano da quanto si sentono senza limiti. Il groove di “Fractals” sembra eterno in mezzo al discorso agrodolce della nostra, contro i battiti svolazzanti di Skinner e i dolci soffi di sassofono di dePlume. Crea un blues ambientale mozzafiato in “Haunted Satellite”, i riverberi tra le note diventano la forza trainante dietro la traccia tanto quanto una vera melodia, mentre c’è un compromesso tra deriva in tonalità minore e funk sobrio in “Forever Young. E mentre la linea di basso e la progressione degli accordi cambiano di rado nella mozzafiato “Arms Around a Memory”, l’evoluzione inquietante e graduale equivale a un momento culminante che indurrà i brividi.
Un disco che aderisce ad una tendenza particolare nel corpo di lavoro di Orton in quanto non si rifà affatto a nessuna cifra stilistica né del presente né del passato, a parte quella che la vede correre rischi artistici ancora maggiori ogni volta che fa una nuova visita in studio. Quell’istinto coerente di cercare una nuova scintilla creativa, di non permettere a nient’altro che la sua stessa scrittura di definirla, è ciò che ha portato a un nuovo picco a quasi 30 anni dall’esordio. La dice lunga sul fatto che il miglior lavoro è quello in cui prende il timone come produttrice, una riaffermazione che la voce più preziosa che vale la pena ascoltare è la sua!!!
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