ABUL MOGARD: “In Immobile Air” cover albumÈ la sensazione di essere nel limbo, di sapere che il tempo avanza e rimane statico, che ha definito il coronavirus, e “In Immobile Air” di Mogard. C’è una scia di suoni idiosincratici che attraversano il disco, in particolare nella title track di apertura e nella penultima “Sand”, per cui i colpi di pianoforte familiari riappaiono carichi di un pesante senso di malinconia, avvolti dal morbido abbraccio dei droni sfocati. Anche se c’è differenza, c’è un cambiamento, per quanto sottile possa sembrare. L’apriscatole si trova a sfilacciarsi in un riverbero desolante, sgranocchiando toni sbiancati, mentre “Sand” è molto meno offuscata e luminosa, anche se asciutta e stolide.

Il pianoforte o il synth è raramente sentito chiaramente altrove, anche se il suggerimento di una forma musicale riconoscibile si insinua ovviamente. Allungato ed elegante la conclusione “On A Shattered Shell Beach” pulsa in morbide e delicate insistenze synth, riecheggiando le oscillazioni oceaniche dei suoi predecessori. Il suo regno che pulsa lentamente è quello del moto costante, ma nessuna chiara evoluzione, nessun cambiamento percepibile che si verifica nei cicli tra le onde. Proprio il lontano fuzz di un miliardo di granelli di sabbia che rotolano nel vento, la particolare calce di particolato sfornato e trascinato nel surf, significanti e suggeritori del movimento. Non ci sono parole per descrivere le sensazioni provate all’ascolto!

Oppure prendi i movimenti più cupi della “Black Dust” posta al centro del programma, le cui onde temperate dei droni si insinuano in crescendo, schiantandosi con energia attentamente dosata con nuclei bassi profondi ed estremità diffuse e rumorose. Sembra un ritaglio più cerebrale di “Illusion of Time” di Dan Avery e Alessandro Cortini che un rilascio di Abul Mogard, ma il suo regno di marea faticoso si inserisce perfettamente nei confini quasi tortuosamente statici dell’opera.

I suoni sono spesso generati da un piano verticale, per l’esattezza un vecchio Bechstein del 1891 ottenuto in prestito dall’amica Daniela Cavasin, che si mescolano ai soliti synth modulari e tape recorder. Le registrazioni sono avvenute tra aprile e maggio del 2020 in piena solitudine, forse forzata almeno in parte sicuramente sì. Belli anche i disegni della copertina e degli inserti, a cura di Marco De Sanctis, alla cui memoria il disco è dedicato.

Ho spesso parlato, negli ultimi 12 mesi, di lavori che sono stati composti durante il lockdown che ne hanno catturato la sensazione, ma per la maggior parte di questi è l’oscurità, l’ansia dello spazio di testa che circonda la pandemia che hanno imbottigliato; in questo LP è la distinta planarità del suo profilo, la transizione ondeggiante del tempo che viene mostrato. È qualcosa che sono sicuro che molti di noi conoscono ormai e, come me, probabilmente stanno augurando la sua imminente fine!!!


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