“Songs of an Unknown Tongue”’ è il quarto album di Zara McFarlane e arriva a tre anni di distanza da “Arise” del 2017. Il suo mondo è quello del jazz contaminato, dove folklore e tradizione caraibica si mescolano con produzioni dai beat e dagli arrangiamenti innovativi e la sua voce cristallina.
Il nuovo album è ispirato agli studi di Zara sulla sua eredità giamaicana, compreso un viaggio fatto nel 2018, incontri accademici e ricerche di antropologia musicale legate alle tradizioni dell’isola dei suoi avi. Il nuovo sound di Zara è il culmine di una ricerca e una riflessione su come la storia degli antenati di Zara abbia influenzato il suo presente e la sua musica.
Il nuovo lavoro è proprio questo, un blend di tradizione e ritmi giamaicani con il tocco moderno della produzione di Kwake e Wu-Lu. Zara McFarlane ad oggi ha pubblicato tre album con la Brownswood di Giles Peterson, di cui l’ultimo “Arise” adorato dalla critica internazionale e premiato con un Mobo award e un 2 Jazz FM come ‘Vocalist of the Year’. L’artista è nota anche per le sue performance dal vivo e la lunga lista di collaboratori con cui ha collaborato: Gregory Porter, Shabaka Hutchings, Moses Boyd e Louie Vega, oltre ad essere stata campionata da Floating Points e Russ.
La nostra in passato si era sempre distinta per avere trovato una giusta formula in modo da presentare la musica della Giamaica nella sua forma più consistente e reale, lontana da certe rappresentazioni del reggae piuttosto banali ed insignificanti. Si ergeva una vocalità squillante a cui faceva da accompagnamento una strumentazione votata anche, se necessario, all’improvvisazione. Era un suono acustico a risaltare, abile nel seguire percorsi che toccavano il folk, il jazz e la world music. Ora tutto questo è stato cancellato per darsi a strutture elettroniche dozzinali e prive di originalità. Ognuno è libero di scegliere una nuova via per la propria carriera, a patto che il cambiamento conduca a risultati migliori. Purtroppo, in questo caso, sembra che la nostra si sia infilata in un ‘cul de sac’ da cui sarà difficile districarsi in futuro.
Esempio di quanto espresso sopra è il pezzo “Saltwater” in cui vengono a contatto la voce ed un synth (Kwake Bass) che viene dilatato senza un significato preciso. Il disco si salva per i testi dotati di interessanti spunti politici e per l’idea di base dell’album cioè riportare alla conoscenza degli ascoltatori ritmi antichi ed i riti ad essi connessi. Musicalmente salverei anche i due brani conclusivi, “Roots of freedom” e “Future echoes”, perché dotati di sonorità vere, in questo caso una sezione fiati che capace di elevarli e ravvivarli.
Peccato che si sia voluto dare un taglio così moderno alla raccolta, sarebbe bastato rimanere nell’ambito dei suoni acustici per ottenere un risultato sicuramente superiore!!!
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