THE CHILLS: “Submarine Bells” cover albumI The Chills sono un mito e Martin Phillips, da sempre la mente dietro cui si cela la musica del gruppo, è un talento sublime. Il gruppo neozelandese è alfiere di quel suono che va sotto la dicitura di ‘Dunedin Sound’ di cui i nostri sono i portavoce dagli inizi degli anni ’80 e hanno, ancora oggi, un culto da parte degli appassionati di rock indipendente. La musica che li caratterizza è un blend di folk-rock, post-punk, psichedelia e memorie velvettiane. Onore alla Fire Records che li ha riportati all’attenzione del pubblico pubblicando un live, una raccolta di BBC session e un disco nuovo uscito nel 2018 dal titolo “Snow Bound”. Ora è la volta di un paio di ristampe, quelle del loro secondo e terzo album, non si capisce il motivo per cui non siano partiti dall’esordio.

Dei due preferisco parlare del secondo lavoro della loro discografia, “Submarine Bells”, che uscì nella primavera di trent’anni fa per la Slash, sussidiaria indie della Warner Bros. dopo i molti anni trascorsi sulla Flying Nun, con la quale avevano esordito nel 1987 su LP più ciò che era stato stampato gli anni precedenti in formato singoli.

Per la prima volta su una major, Phillipps realizzò un disco davvero adorabile, appena trentasei minuti e non un secondo sprecato. La traccia principale è il singolo “Heavenly Pop Hit”, che rimane il pezzo più famoso e meritatamente così – su una combinazione rapace di tastiera / ritmo, Phillipps canta proprio questo, un testo stimolante con un coro impennato, aiutato da voci di supporto aggiuntive dall’ ospite Donna Savage. Da lì un momento dopo l’altro, senza mai perdere il senso dell’eleganza e della spinta che caratterizza il lavoro della band. La voce forte e amabilmente normale di Phillipps e le parole sorprendentemente intelligenti ma mai troppo ottuse sono entrambe meraviglie, mentre Andrew Todd mette in mostra un eccellente lavoro alle tastiere che fornisce energia e ombreggiature piacevoli. Aggiungete a ciò una bella sezione ritmica del bassista Justin Harwood e del batterista James Stephenson e non c’è da meravigliarsi che questa versione dei The Chills abbia successo.

Un fantastico esempio del loro lavoro insieme è “Singing In My Sleep”, con Martin che dà un pesante trattamento tremolo alla sua chitarra, mentre tutti gli altri creano qualcosa che non è troppo lontano dai Neu!, pulsa di motorik, in una vena pop più dolce. Altri simili brani, ispirati al Krautrock, hanno molti echi sulla raccolta dei nostri, seguendo lo stesso filone di “I Love My Leather Jacket”: prestate attenzione alla rapida consegna di “The Oncoming Day” o all’intensità saltellante di “Dead Web”. In caso contrario, ci adagiamo su dolci pezzi folk dal tocco medievale di cui godono “I Soar” e “Do not be Memory” o più taglienti rock quali “Familiarity Breeds Contempt” dove l’aspra pronuncia del cantante arriva con intensità. La title track, con un’orchestrazione serena che completa il grande arrangiamento, è un modo perfetto per concludere un’uscita così fantastica.

The Chills, con “Submarine Bells”, hanno dato vita, se non al miglior lavoro di quel filone di musica neozelandese, ricco di album importanti e misconosciuti, certamente a quello più rappresentativo che condensa, come meglio non si potrebbe, tutte le principali caratteristiche del ‘Kiwi rock’: sostenibile leggerezza, solari aperture alternate ad atmosfere più umbratili, improvvisi guizzi elettrici new wave, scrittura talvolta impressionista e ricca di chiaroscuri!!!


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