La terza prova di studio è, generalmente, quella decisiva, che deve determinare le prospettive di una formazione. L’esordio dei nostri fu una piacevole sorpresa con soluzioni che lo accostavano ad altri gruppi che fecero della rinascita del folk-rock il marchio cardine della propria musica quali Mumford & Sons, Fleet Foxes, Decemberists, Lumineers e Fanfarlo. Già il precedente album “Beneath The Skin” aveva imboccato il versante discendente forse per voler seguire le orme di gruppi con airplay radiofonico quali i Coldplay, mettendo da parte ogni anelito indie-rock (peraltro, nel loro caso, sempre declinato in chiave estremamente mainstream) e votarsi così al peggior easy listening.
Sono trascorsi quattro anni e il collettivo di Reykjavík dà alle stampe il nuovo lavoro dal titolo “Fever dream”. Un periodo d’attesa piuttosto lungo, in cui la band si è presa tutto il tempo necessario per pensare a come collocarsi nel music business. L’apertura è affidata a “Alligator” perfetto singolo guida, molto epico che ricorda certe cose degli Arcade Fire, mentre il resto del lavoro non è più in quella terra di confine tra folk e pop come fu il pezzo “Little talks”. I fiati sono spariti e con loro quella cifra stilistica che li contraddistingueva.
Nanna Bryndís Hilmarsdóttir – qui anche produttrice al fianco di Rich Costey (Vampire Weekend, Cvrches) – e Ragnar þórhallsson hanno composto una serie di potenziali singoli costruiti ad arte per intensi passaggi radiofonici. A volte il giochino riesce, come nella sopraccitata “Alligator”, altre volte mostra la corda come in “Stuck in gravity” che anche dopo ripetuti ascolti fatica ad essere ricordata. La ricerca continua di un suono moderno e iperprodotto non riesce a liberare le melodie oppure nasconde pecche in fase di scrittura. Il meglio risiede in “Vulture Vulture”, il cui ritornello catchy se non altro porta a casa la sufficienza, e “Wars”, discreta composizione dai vaghi richiami neworderiani; così come dai toni parecchio 80s risulta essere “Wild Roses”; e c’è poi “Waiting For The Snow”, che si configura come un curioso esperimento dagli echi quasi ambient.
Un album transitorio, che forse avrà successo nel mainstream, ma che lascia dubbi sul futuro della formazione!!!


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