Non sono sicuro del fatto che vi voglia parlare di “Fade away diamond time” perché lo voglia riportare alla luce dall’oblio in cui è confinato, oppure come una sorta di omaggio ad un musicista che ha avuto un ruolo importante, benché di nicchia, negli ultimi venticinque anni. Al di là della propria e lunga carriera solista ci sono le presenze per lungo tempo nelle formazioni dei Cardinals di Ryan Adams e dei Brotherhood di Chris Robinson.
Purtroppo si è suicidato e il suo corpo è stato ritrovato la sera del 26 agosto. Il suo era un animo gentile, introspettivo e profondo che si esprimeva attraverso l’arte e la gentilezza. Ora che non è più fra noi vengono alla memoria tanti ricordi come l’uscita del suo album solista del 1995 oppure il concerto del 2000 a Chiari come apertura a Sonny Landreth.
Era nato nel New Jersey e come tanti suoi conterranei aveva girovagato per gli States prendendo qualcosa da ogni luogo e lasciando un pezzo di vita in ogni stato in cui ha vissuto, Michigan, Florida, Georgia, California e il New York State che è stato il suo approdo finale. La musica si è modellata magnificamente su questi territori creando il suono di questo ragazzo sensibile che ama i dischi di Neil Young e le buone letture.
Riascoltare questo album a venticinque anni di distanza dalla sua uscita, con la tristezza nel cuore causa la sua scomparsa, risulta un po’ strano considerando il fatto che da tempo la sua carriera aveva seguito percorsi differenti. Neal in quel periodo si trova in California, sono gli anni novanta e decide di intraprendere la carriera di cantautore dedicandosi alla scrittura di canzoni, fu così che dopo alcuni demos esordisce con questo album favoloso, prodotto da Jim Scott e pieno di strumentisti di talento, oltre che di splendidi brani. Cominciamo ad analizzare le liriche che mettono in mostra un buon talento.
Affronta le difficoltà quotidiane dell’esistenza, le certezze della vita, la ricerca dei rapporti umani quelli veri, non come oggi che tutto viene delegato ai “Social”, una dimostrazione ulteriore di quanto il suo girovagare abbia influito nel percorso artistico.
“Fade away diamond time” si presenta come un blend tra il Neil Young di “Harvest”, il Jackson Browne di “Late for the sky” e le chitarre degli Stones e trova la sua realizzazione nel Palacio del Rio, California, ex residenza di Dean Martin ora studio di registrazione. Un disco irripetibile capace di farci assaporare il calore del rock sudista e la piacevolezza della west coast. Non una copia di quello che girava in quei giorni nell’ambito del rinascimento dell’Americana, in cui convivevano squarci elettrici con violini e padal steel, né tantomeno cerca di intrufolarsi nel grunge imperante di allora. Se un paragone vogliamo fare direi che potrebbe riguardare i Jayhawks di “Hollywood town hall” oppure il primo dei Wallflowers di Jakob Dylan.
C’è un uso costante del piano e delle tastiere nelle sapienti mani di John Ginty. Il disco è lungo, quasi un’ora di musica, ma, soprattutto nell’ipotetico lato B, ha una serie di canzoni molto belle, ampiamente sopra la norma e solo qui e là s’intravede quella che poi sarà la sua carriera futura, ovvero quella psichedelia morbida che oggi contraddistingue il suo apporto in gruppi come Chris Robinson Brotherhood, soprattutto, e Hard Working Americans.
Purtroppo perde immediatamente il budget di una major che, inopinatamente, lo scarica, ma non quella dei musicisti coinvolti nel lavoro che lo seguono ancora nel suo percorso solista tra cui cito Bob Glaub, Greg Leisz e Don Heffington. Ha saputo fare di meglio dell’esordio? Ci ha provato, ma non ci è riuscito pur mantenendo un profilo qualitativo di livello.
“Fade away diamond time” è invecchiato benissimo, non ha perso un grammo della sua liricità, ve lo consiglio caldamente dopo averlo appena riascoltato, con un velo di tristezza per ciò che è stato e mai sarà più!!!


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