LESS BELLS- “Mourning Jewelry” cover albumJulie Carpenter, talentuosa musicista e compositrice americana torna, dopo uno splendido debutto (“Solifuge“), con un secondo, altrettanto affascinante, album. “Mourning Jewlery” è un affresco strumentale in cui ambient, elettronica, folk e addirittura elementi di musica contemporanea si fondono alla perfezione in un toccante viaggio sonoro fatto di contrasti e chiaroscuri. Esteticamente parlando è una produzione che rispetta in pieno i canoni strutturali di casa Kranky.

C’è un processo decisionale visibile e consapevole, forse anche un marchio di auto-riflessione, dietro le costruzioni di “Mourning Jewelry”. Prendi “Fiery Wings”, la seconda traccia dell’LP. Qui, Carpenter dispiega sciami perfetti di violoncello, segni di punteggiatura occasionali da lamenti affannosi e una struttura di synth risoluta traboccante di stile barocco. Ma seppellisce quella struttura – un ritornello di misure su sintetizzatori simili a un pianoforte – sotto strati di suono apparentemente casuale, aggiungendo una nozione di mistero. Nell’eccellente “Queen of Crickets”, prende ancora una volta un dettaglio primario – in questo caso, il ronzio quasi basso di una tastiera ronzante – e lo posa dietro, non davanti, strati sfumati di trame sintetiche. È un trucco interessante perché, anche se le note di basso, a volte, indicano il passaggio tra vari ponti o modi di canzone, le trame sintetiche diventano di per sé effimeri che rubano la scena.

Alla fine, ti rendi conto di aver ascoltato una specie di ronzio celeste, con la struttura necessaria che tiene insieme il pezzo, nascosto nel profondo. Julie utilizza questo dispositivo in più di un paio di occasioni. Si tira addosso un teté-a-tete simile “Plait “, anche se la conversazione qui è così eterea che quasi galleggia sulla superficie dell’LP. Il pezzo introduttivo “Brooch” è un po’ mal sequenziato e, a quasi nove minuti, dura forse un tantino troppo, impiegando del tempo per generare calore e anche di più per rendere note le sue dichiarazioni. La nostra cerca di salvare la traccia da un insensato amorfismo, con gli stessi versi punteggiati con cui tesse anche in altri momenti dell’album, ma qui si sentono più freddi, leggermente vuoti ed aleggiano nell’etere più del necessario.

Diciamo pure che gran parte del disco è sicuramente interessante, ci sono piccole gemme quali “The Fault”, dove il canto senza parole di Less Bells la avvicina ai modi del romanticismo tradizionale. L’espressivo lavoro con gli archi su questa traccia potrebbe essere il dettaglio più triste dell’intero lavoro. Più vicino “The Fang”, a prima vista offre una cadenza errante. Ma l’introduzione di corde pizzicate liberamente (lo strumento non è chiaro) funge da tramite ai ponti in cui il lavoro di sintetizzatore di Carpenter ruba di nuovo la scena. Nel minuto conclusivo, gli archi e il synth iniziano a marciare come uno in sincope, e si presta alla chiusura del procedimento, la sensazione di venire a patti con il dolore – il che, ancora una volta, rende giustizia al testo.

La compositrice americana è uno dei talenti più interessanti della musica alternativa al femminile e la rassicurante malinconia di questa opera ne è la prova!!!


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