LAURA NYRO: “New York Tendaberry” cover albumGrinta, dolcezza e dolore, questo è “New York Tendaberry”, il capolavoro di Laura Nyro (1947-1997). Il disco, in cui Nyro canta e si accompagna al pianoforte, sembra raccontare una giornata della vita dell’artista tra le strade di New York.

Si sveglia quando il suo uomo se ne va (“You Don’t Love Me When I Cry”), prende per mano l’ascoltatore e lo porta con lei sulla metropolitana per cantare gioiose armonie che si fondono al suono dei treni (“Mercy on Broadway”). Si arriva quindi a “Gibson Street”, un luogo non adatto ai più sensibili, qui vengono impiccati i gatti randagi! Poi arriva la notte languida e profonda, e prende forma una breve celebrazione dalla terrazza dell’artista mentre i petardi irrompono e tutto intorno c’è polvere. Il momento più bello del disco è il brano di chiusura, la traccia omonima, in cui la voce incredibile di Laura e le note del suo pianoforte regalano all’ascoltatore immagini di rara e stupefacente bellezza. In questa meravigliosa canzone la cantautrice/pianista nata nel Bronx considera la sua città natale attraverso ‘lacrime d’argento’, un luogo che la attira ancora e ancora. ‘Sembri una città, ma per me sembri una religione’, canta.

Nyro descrisse l’album in un’intervista del 1969 alla rivista Down Beat: ‘Non è ovvio… non uno che ascolti davvero, perché ti passa davvero davanti alle orecchie ed è molto sensoriale ed è tutto… entra, come nella parte posteriore del collo, o qualcosa del genere. È astratto, non vizio, eppure sento che è molto vero. Sento che è la vita, ciò che la vita è per me comunque’.

Che diavolo è un tendaberry, comunque? La nostra, che aveva un’affinità per insediare le sue stesse parole (chiedendo alla gente di ‘surry fino a un picnic dell’anima lapipidata’ nella hit del 1968 “Stoned Soul Picnic”) spiegò: ‘Tendaberry è la mia parola, è un’essenza, non è la morte … è nascita ed è molto tenero, molto fragile, molto forte, molto vero… si tratta di una bacca, un tendaberry’.

Laura, che co-produsse l’album con l’ingegnere Roy Halee, contattò l’arrangiatore di Miles Davis Gil Evans per organizzare l’album, ma non rispose mai alla sua lettera. Invece, si rivolse a Jimmie Haskell, che lavorò su “Ode to Billie Joe” di Bobbie Gentry e “Old Friends” di Simon & Garfunkel (e, più tardi, “Bridge Over Troubled Water”). Prima di incontrare Haskell, disse a Down Beat: ‘Ci siederemo e parleremo finché non saprà il più possibile di cosa provo e dove deve essere questo album. So che è già lì, perché il lavoro di Bobbie Gentry crea il delta, ed è sciroppo, e si possono quasi sentire i grilli e gli insetti. E su “Old Friends” ha davvero catturato l’umore giusto… può farlo. Non voglio che scriva come Gil Evans, non gli chiederò di darmi un suono alla Gil Evans o qualcosa del genere… tutto quello che voglio che mi dia è questo tendaberry’.

Sebbene “New York Tendaberry” fosse un disco forte quasi quanto il suo predecessore, “Eli and the Thirteenth Confession”, non era così accessibile. In gran parte questo perché, a differenza dei suoi primi due album, non aveva tre o quattro canzoni che sarebbero diventate immediatamente successi riconoscibili nelle mani di altri artisti. Ma è stato anche perché l’umore del disco era considerevolmente più scuro. Non

era certo un affare cupo, ma l’enfasi era sui lamenti e sugli arrangiamenti soul che spesso presentavano, in parte o in tutto, nient’altro che la sua voce e il suo pianoforte. C’erano punteggiature astute e drammatiche dell’orchestrazione, ma queste erano molto più sommesse di quanto non fossero state sul più giubilante disco precedente. “Save the Country” (insieme alla sezione ottimista di “Time and Love”) è in realtà l’unica canzone qui che ha l’immediato impatto edificante dei suoi primi brani più famosi, e anche quella traccia avrebbe potuto beneficiare di un arrangiamento meno crudo.

È un album gratificante, ma che richiede uno sforzo per apprezzare appieno!!!


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