È giunto il momento di fare i conti con le mie prese di posizione, spesso estremiste, del passato quando attaccai i mostri sacri della musica, qualunque essa fosse, attirandomi le ire di clienti e conoscenti.
Naturalmente non poteva mancare Keith Jarrett, forse il jazzista più conosciuto e venduto a partire dagli anni ottanta.
Fa parte di quella schiera di musicisti , o strumentisti, che si cimentano con diversi tipi di musica passando dal jazz alla classica. Lo possono fare perché ne possiedono la tecnica, ma così comportandosi perdono, a mio avviso, la propria cifra stilistica o non la raggiungono affatto. Non sono amante della tecnica come fine ultimo della musica, ma piuttosto come mezzo per raggiungere determinati scopi in ambito compositivo. Dalla mia posizione di rivenditore musicale sono venuto in contatto con tanti clienti e, spesso, chi acquistava Jarrett non pensava di acquistare un artista jazz, ma uno strumentista che non lo disturbasse all’ascolto perché veniva utilizzato come sottofondo per cene oppure durante il lavoro al computer.
Un comportamento che non ho mai digerito, quando ascolto, ascolto non faccio altro, mi concentro sulla musica e basta.
Dopo questa lunga introduzione, o forse sfogo, mi addentro nella vita artistica del nostro. Iniziò a suonare il piano alla tenera età di tre anni svolgendo studi classici, si esibì a nove anni suonando una composizione di Bach e verso i quindici intraprende studi di composizione.
Verso la metà dei ’60 si avvicinò al jazz entrando nei Jazz Messengers di Art Blakey, momento in cui si innamorò di gospel e blues, un rapporto che non abbandonò mai più. Successivamente fece parte del quartetto di Charles Lloyd dove conobbe il giovane batterista Jack Dejohnette che in futuro avrà un ruolo chiave nella carriera di Keith.
Nel ’70 divenne membro della formazione di Miles Davis, per il quale suonò il piano elettrico e l’organo, entrambi gli strumenti solo dal momento della dipartita di Chick Corea. Rimase nel gruppo del divino solo per la stima che nutriva nei suoi confronti, perché non era affatto d’accordo sulle scelte stilistiche di Miles e detestava suonare strumenti elettrici e non sopportava l’elettronica.
Una volta uscito dal gruppo di Davis intraprese una carriera da leader alternandosi in solo, trio e, per un breve periodo, con due quartetti, quello americano e quello nordico.
In realtà la sua attività più conosciuta è quella in cui si cimenta in trio oppure in solo. Quando si esibisce al solo piano di solito si dedica ad improvvisazioni come nel caso del “Koln Concert”. Nelle esibizioni in trio alterna dischi di standard con quelli più legati all’improvvisazione.
“After the fall” è uscito lo scorso 2 marzo ed è un lavoro dal vivo registrato a Newark nel novembre del 1998, appena tornato sulle scene dopo la malattia che lo aveva colpito un paio di anni prima.
È un concerto che precedeva di alcuni mesi quello pubblicato su “Whisper not” nel 2000 che ci rendeva partecipi di uno show del luglio del 1999.

Al tempo si sprecarono elogi, tra cui un’espressione come “opera della resurrezione”. Direi che gli stessi applausi andrebbero riservati anche a “After the fall” in cui il trio si dimostra in grado di proporre musica tesa e brillante che va direttamente al bersaglio cioè un suono tipicamente jazz.
Il programma del nuovo album non si sovrappone più di tanto a quello di “Whisper not” e c’è un ritorno verso sonorità bop, una gioia nel suonare, una profonda emotività capace di eliminare gli inutili orpelli.
Ci sono perle come “Old folks”, “Doxy” e “Late lament” suonate cercando di sviscerarne ogni possibile forma espressiva.
Un lavoro rivolto non solo ai collezionisti, ma consigliato a tutti coloro che sono legati al formato del piano trio.


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