JON HASSELL- “Vernal Equinox”Di Jon Hassell ho già parlato diverse volte, ma non potevo esimermi dal farlo in quest’occasione, per la ristampa del seminale “Vernal equinox”, l’album di debutto del nostro originariamente pubblicato nel 1977. La nuova edizione è stata rimasterizzata utilizzando i nastri originali e le note di copertina sono state compilate da Brian Eno e da Jon stesso. Qui siamo al cospetto di una vetta insuperata, un album uscito originariamente per la Lovely . Potremmo prendere le parole che Eno usò nei suoi confronti: “Jon Hassell è più di un superbo musicista. E’ un inventore di nuove forme di musica – di nuove idee di ciò che la musica dovrebbe essere (…). [La sua] è una visione ottimistica, globale, che lascia presagire non solo ‘musiche possibili’ ma ‘futuri possibili’”. Sicuramente il buon Brian gli rubò l’idea circa la “Fourth-World Music”, “My life in the bush of ghosts” nasce da quel modo di pensare musica ed in origine doveva essere un lavoro a sei mani, poi ne restarono solo quattro (Eno/Byrne), ma in seguito, nel 1986 gli rese tutti gli onori in un’intervista.
Nato nel 1937 a Memphis (Tennessee), il giovane Hassell crebbe in mezzo a un melting pot in miniatura, invaghendosi presto della musica afro-americana. Tra i suoi primi amori, Stan Kenton e Miles Davis. In seguito ci fu lo shock – molto comune a quei tempi – del confronto con le opere di Stockhausen (soprattutto quello dello storico “Gesang der Junglinge” del 1956), i cui corsi egli ebbe modo di frequentare a Colonia nel 1965, spalla a spalla con Holger Czukay e Irmin Schmidt, in seguito membri fondatori dei Can. Tornato in patria ebbe modo di partecipare al lavoro di Terry Riley “In C” e in alcuni lavori di LaMonte Young. In questo modo, egli poté dimostrare a sé stesso di essere maggiormente interessato al superamento (che, sia detto per inciso, non sarà mai totale) di certe concezioni musicali di stampo occidentale. Che il suo dovesse essere un lavoro di sintesi, lo intuì dopo un viaggio in India, in cui venne in contatto con il mondo della musica indiana e con le sfumature indefinibili dei “raga” e con il maestro Padit Pran Nath.
Quando arriva a registrare il disco in questione Jon ha quarant’anni, la sua è, ormai, una visione musicale matura, la fusione perfetta di tutte le sue esperienze precedenti. È un virtuoso della tromba, ma anche un amante delle diavolerie elettroniche e dei trattamenti sonori. L’uso sapiente dell’elettronica e delle percussioni, che trovano il loro picco più alto nella title track (suite di circa 22 minuti) portano l’ascoltatore in nuovi mondi, nuovi universi, dove poter trovare serenità e forse un punto di incontro tra culture prima d’ora isolate, e impossibili da associare. Dietro il placido amplesso tra percussioni e tromba si apre ancora uno spazio illimitato, in cui l’elettronica assume connotazioni maggiormente “cosmiche”. Non insisto nel descrivere ogni singolo brano, perché non voglio togliervi il piacere dell’ascolto e della sorpresa. Sappiate che siete al cospetto di un’opera di una bellezza perfetta in un luogo perfetto.
Pura ed autentica magia!!!


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