Capita spesso di leggere le note di presentazione dei dischi d’esordio di un gruppo e rimanere allibiti dai paragoni utilizzati per introdurli agli ascoltatori.
Per i Jo Passed si sono scomodati i Beatles (tanto per cambiare), ma dopo che sul loro percorso si sono imbattuti nella crema del kraut (Can e Neu!) e pure i Sonic Youth e gli XTC.
Dopo attento ascolto devo affermare che non ho riscontrato nessuna melodia dei baronetti, ma, poco o nulla, anche delle altre formazioni citate.
Il quartetto canadese originariamente era un duo composto da Jo Hirabayashi, dal nome giapponese, ma dai tratti occidentali, e dal suo amico batterista Mac Lawrie.
I due si mossero da Montreal per suonare il più possibile nella estremità nord orientale del continente americano. Dopo che Jo fece ritorno a Vancouver entrarono in formazione la polistrumentista Bella Bebè nel gennaio del 2016 e l’artista multimediale Megan-Magdalena Bourne che si sistemò al basso.
In realtà credo sia più giusto affermare che i Jo Passed siano quasi il progetto personale di Hirabayashi. Non è un novellino, ma un trentenne che è stato impegnato a prestare i propri servizi alla chitarra, al mixer e alla voce a diverse auto-produzioni del giro underground di Vancouver.
Questa situazione è cessata nel momento in cui la Sub Pop si accorge di lui e della sua creatura e li mette sotto contratto.
Dopo questa lunga introduzione mi rendo conto che sia impossibile che abbiate capito che musica facciano i nostri. Direi che si collocano a metà tra indie e wave, cioè in quel limbo in cui le chitarre suonano distorte e deformate, gli arrangiamenti non sono convenzionali e il cantato non appare regolare ed accademico, ma alquanto sopra le righe.
Ci si può trovare anche un non so che di dream pop. Questi sono gli aspetti positivi, ma esiste pure una componente sia attitudinale, che di suono che li fa apparire leggermente costruiti e poco sinceri.
Percepisco una strana sensazione da Radiohead fine anni ’90 cioè quelli di “OK computer”, non tanto come similitudini sonore, quanto per il fatto che le canzoni sono super prodotte ed arrangiate in una sola parola alquanto barocche.
Il risultato non scade mai nello stereotipo perchè sono, comunque, dotate di anima e di passione.
Provate ad ascoltare la spigolosità di “MDM” innestata in una bella pop song, oppure le destrutturazioni di “Glass”, non potrete far altro che applaudire.
Bella anche la chiusura strumentale di “Repair” che ricorda la psichedelia del gruppo di Thom Yorke.
Interessante “Left” con archi dissonanti e chitarre acide.
Alla fine dei quarantatre minuti della sua durata, soppesati aspetti positivi e negativi, mi sbilancio nell’affermare che il disco è interessante e merita più e più ascolti!!!


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