GRATEFUL DEAD- “American Beauty”Non fu amore a prima vista con i Grateful Dead. Anzi, ad essere sincero, quando ebbi tra le mani “Live/Dead”, primo disco che acquistai della loro discografia nell’ormai lontanissimo 1976, la mia prima tentazione fu quella di lanciarlo dalla finestra come se fosse un frisbee! Erano passati pochi mesi da quando fui iniziato al mondo della musica e i miei ascolti erano orientati verso l’Inghilterra ed il prog-rock in particolare. Fui mosso all’acquisto dei Dead dopo aver letto una recensione che ne parlava in modo entusiasta. Così mi misi all’ascolto tutto eccitato, ma non riuscivo proprio a capire che cosa stessi ascoltando e quando giunse il momento di “Dark star” dopo pochi minuti tolsi il vinile dal piatto e riposi il disco senza alcun pentimento, io che quando approcciavo un album per la prima volta lo ascoltavo dall’inizio alla fine!

Mi ci è voluto del tempo e dello studio per entrare nel loro mondo, sono dovuto passare per tutte le musiche tradizionali americane, dal folk al country e al blues per poter comprendere appieno la loro proposta e diventare una sorta di ‘Deadhead’. In pratica sono stati necessari gli acquisti, alcuni anni dopo, di due opere come “Workingman’s dead” e “American beauty”, entrambe uscite, a pochi mesi di distanza l’una dall’altra, nel 1970. Sono quindi trascorsi cinquant’anni dalla loro pubblicazione e trovo doveroso celebrarle con il dovuto rispetto ed ammirazione. In realtà ho dovuto meditare a lungo su quale scegliere da recensire perché entrambe fanno parte della mia vita in maniera diversa, ma con uguale capacità di coinvolgimento emotivo. Alla fine la scelta è caduta su “American beauty”, quella che acquistai per seconda, perché contiene “Friend of the devil”, uno dei miei pezzi preferiti in assoluto.

Entrambi i lavori furono un cambiamento epocale per la band, ci fu l’introduzione della pedal steel, si lavorò con una strumentazione acustica, si crearono brani che fossero più legati alla costruzioni di canzoni con melodie ben definite e si costruirono impasti vocali che potevano far invidia a Crosby, Stills & Nash.

È un’opera di rara bellezza, che si muove tra il folk e la musica americana delle radici, accenni country, pennellate di blues e un certo sentimento bluegrass. Rispetto al precedente la musica risulta più gioiosa, il gruppo sembra più sereno e consapevole. Garcia fa un uso di gran lunga superiore della pedal steel rispetto alla sei corde sia acustica che elettrica. La prima cosa che balza alle orecchie è la semplicità dei brani che sembra oscurare la raffinatezza ed l’eleganza che comunque sono presenti. Altro aspetto importante è che si tratta di un vero e proprio lavoro di gruppo sia a livello vocale, dove cantano tutti ad eccezione della sezione ritmica, sia a livello compositivo in cui, oltre alla coppia Garcia/Hunter, partecipano anche gli altri come mai in passato.

“Box of rain” è l’apertura con piacevoli intrecci elettroacustici e il bello stacco di Jerry, pezzo a firma Lesh/Hunter, dedicato al padre di quest’ultimo che stava lottando contro un male incurabile e si stava spegnendo lentamente. “Friend of the Devil” è una bellissima ballata folk-rock con un ritmo assolutamente pregevole ed accattivante, una specie di jam bluegrass nella quale spiccava l’apporto di David Grisman al mandolino. Narra della storia di un uomo che pur tra mille problemi riesce a mantenere l’ottimismo, nonostante il suo ultimo incontro con il demonio lo abbia sconvolto. “Sugar Magnolia” descrive la capacità di sintesi dei Grateful Dead tra West Coast e Blues, con il lavoro al basso di Lesh a dare quell’ulteriore tocco di tipicità alla canzone. “Operator” è a firma Pigpen è un tipico brano dei Dead sul versante country-blues, con eccellente riff chitarristico e l’armonica che assume un ruolo di rilievo. Interessante è la sentita ballata “Candyman”, che poi cede il passo alle armonie di “Ripple” ed al sicuro lavoro della coppia Garcia/Grissman, già all’opera in maniera eccellente in “Friend of the Devil”, come prima riportato, con un finale corale che sembra una preghiera, un invito a tenersi vicino coloro che si amano. Con “Brokedown Palace” si definisce come si deve il concetto di ballata, magnifica per le immagini che crea, e stupenda per le liriche che Jerry canta dando spazio al sentimento di tristezza e dolore. L’aumento delle battute introdotto da “Till the Morning Comes” riporta a sprazzi ad un passato in quel momento ancora recente e si caratterizza per ispirate armonie vocali. “Attics of My Life” risulta un po’ disomogenea rispetto al corpus del disco, lasciando filtrare accenti che all’altezza del coro, risultano addirittura prossimi al gospel, ma regala comunque momenti di toccante sensibilità. Con “Truckin’” siamo giunti al termine, uno dei brani più amato dai fans, un rock-blues trascinante con accenni psichedelici, che parla del viaggio, del trasferimento da un luogo all’altro per le esibizioni sul palco, una canzone manifesto della controcultura del tempo.

Che dire se non che i Grateful Dead con “American beauty” ci hanno lasciato un altro testamento che rimane attuale ed immensamente bello e elegantemente acustico, un’opera innovativa dato che la commistione tra gli stili proposti non era affatto usuale nel 1970!!!


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