Chissà che aria si respira a Birmingham per dare vita ad un gruppo come i Godflesh!!!
Nel 1988 Justin Broadrick(voce, chitarra e programming) e G.C. Green(basso e batteria) formarono quello che può essere definito la band di industrial metal per eccellenza.
Justin fu il chitarrista dei Napalm Death per poi fondare gli Head of David che proponevano un suono oscuro influenzato tanto dai Black Sabbath quanto dai Killing Joke.
Broadrick si può considerare una delle più influenti personalità in campo musicale dei tardi anni ottanta!!!
I Godflesh non sono stati i primi ad unire sonorità industrial con il metal(possiamo citare Ministry e Prong), ma si pongono come coloro che hanno fatto proseliti su tutta una generazione di musicisti che segnerà l’industrial metal nel decennio successivo.
I nostri trassero ispirazione dal power electronics dei Whitehouse, dai noise rockers Swans e persino da Brian Eno per la componente ambient.
Riescono a miscelare drum machine con chitarre distorte, l’uso del basso è potente ed intermittente.
Successivamente introdussero anche batteristi umani quali Bryan Mantia e Ted Parsons.
Il suono è lento, malato, ripetitivo in una parola apocalittico con uso massiccio di effetti e distorsioni che riescono a generare un’ambientazione opprimente ed irrespirabile!!!
Si sciolsero nel 2002 per ritornare nel 2010.
Oggi si ripresentano con la loro nuova fatica “Post self” e, ancora una volta, non fanno prigionieri.
Il trittico iniziale ricrea quel suono potente e maestoso e metronomico ricco di riff assassini accompagnato da scansioni industriali.
La title track ha un giro di chitarra poderoso, il basso vira verso cadenze dubche rimandano agli Scorn.
La successiva “Parasite” è classico industrial metal e dispiega tutta la sua ansia e cupezza.
“No body” ha una ritmica pressante e metronomica che ci conduce negli abissi industriali portando alla luce i nostri peggiori incubi!!!
Da questo momento in poi il disco cambia registro, le atmosfere si fanno eteree e stratificate con una ritmica che perde in potenza e ripetitività.
Persistono malessere e cupezza che sono il marchio di fabbrica di Justin Broadrick e Co.!!!
Il brano finale “Infinite end” ci dà una speranza con la sua melodia sognante che raggiunge anche tocchi di delicatezza inaspettata.
Un disco che dimostra come siano ancora in grado di dare punti a tutti i gruppi del genere e perché siano considerati dei capiscuola.

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