Al contrario di quello che verrebbe naturale pensare, nei venti lunghissimi anni che ci separano dall’ultima apparizione live degli Screaming Trees, il loro ex chitarrista Gary Lee Conner, da allora ritiratosi a vita privata a San Angelo, non luogo texano, non è stato mai completamente silente. Nella flebile speranza di trovare qualcuno dall’altra parte del mondo che li recepisse, a fasi alterne aveva lanciato i suoi solitari ululati nell’underground, ricca eredità di un passato da compositore compulsivo, capace di disperdere, assieme ai suoi fidi compari, almeno tre dischi fatti e finiti. Ma per restare sul tema della sua introversa produzione solista, stiamo parlando comunque di una corposa raccolta di demo, bozze, early version e altre amene registrazioni casalinghe, sempre in versione rigorosamente one man band, un universo semiprivato capace di riempire potenzialmente una decina di 33 giri. Solchi preziosi in cui scavare con cura e con la certezza che alla fine si verrà certamente premiati con qualche perla all’altezza dei fasti dei tempi che furono. Neanche male per uno che si era quasi totalmente eclissato, dopo aver avuto ben di più del quarto d’ora di notorietà.
Da qualche anno Gary sembra essere tornato con maggiore regolarità e convinzione, se non proprio con l’intenzione di rientrare a pieno titolo nel music business, quantomeno con il piglio di rimanere sulla scia di una passione che non era mai realmente scemata. Dopo l’ottimo lavoro a nome Ether Trippers, ci riprova quindi con “Unicorn Curry”, nuova bizzarra insegna a meno di dieci mesi di distanza. È ancora una prova di indissoluto amore per il garage dei Sixties, un concentrato di psichedelia tra Syd Barrett e i 13th Floor Elevators, Donovan e i Sonics, sciorinata con una competenza nella quale è difficile imbattersi, oggi come ieri.
In una recente intervista sostiene di aver cercato di creare qualcosa di nuovo, senza volersi affidare alla musica retro, ma – dato atto che, oggi, questa è una variabile del tutto secondaria – voi non credetegli, perché sta mentendo spudoratamente. Se non fosse per la batteria elettronica, il cui suono digitale risulta effettivamente po’ indigesto, non riusciremmo a distinguere le tracce di “Unicorn Curry” dai migliori estratti che popolano Nuggets o High In The Mid Sixties. Restiamo perciò saldamente ancorati ai riferimenti di cui sopra, chi in trepida attesa si augurava di ritrovare il marchio di fabbrica della sua chitarra affilata che aveva cesellato capolavori come “Buzz Factory” o “Invisible Lantern” resterà ancora una volta deluso. Sbaglia però chi non si sente in grado di raccogliere la sfida, lasciandosi trasportare nella sua personalissima other side, così come recita la magistrale overture melodica di “Theodore’s Flying”. Si entra subito dopo nel vivo del discorso con “Mary’s English Garden”, nuovo meraviglioso bozzetto barrettiano, e “Downer’s Row”, bellezza calligrafica da classico del rock’n’roll, immaginare che potrebbe essere suonata da una vera e propria garage band, è un modo come un altro per capire come può essere dura la vita. Avanti con “Don’t You Look That Way”, wha wha e moog in primo piano, refrain contagioso che condivide con “Flower Punk Girl”. Possiamo ritrovare i Seeds tanto quanto i Beatles o i Black Angels nella psichedelia indatabile di “Kalliope” o “Neon Days”. A completare la tavolozza in multicolor, il finale con due ballate. Si tratta di “Who Knows The Rain?” e “It’s Only Revolution”, dove gli Screaming Trees è vero riaffiorano, ma stiamo parlando di quelli di “Blackrose Way” o “Sworn And Broken”, visioni potenti che affondano in morbidi tappeti di tastiere e giusto complemento ad un disco solidissimo, che fa soprattutto bene al cuore.
Dopo anni trascorsi su piattaforme online, “Unicorn Curry” esce anche su compact disc (per l’etichetta italiana Vincebus Eruptum) e addirittura cassetta, edito dalla Solid Records. Ma la notizia migliore è che entro l’estate uscirà qualcos’altro dai suoi cassetti inesauribili, per cui mentre rimanete in vigile attesa, fatevi un regalo e cercate “Unicorn Curry” in uno qualunque dei suoi formati.

[Marco Melegari]


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