Dirty Projectors sono la creatura di David Longstreth, uno studente della Yale University che decise di abbandonare gli studi per dare vita al proprio sogno musicale, quello di essere ricordato come una delle penne più prolifiche ed uniche della scena indie-rock statunitense.
Il tratto distintivo di David è rappresentato dalla voce, apparentabile a quella di un crooner, e l’approccio agli arrangiamenti che danno alla produzione sia un aspetto lo-fi che hi-fi.
Ho sempre considerato i Dirty Projectors un moniker dietro cui celarsi, infatti è tutto nelle mani di Longstreth, gli altri sono solamente dei semplici collaboratori di cui si serve sia in studio che sul palco.
Mi ha sempre stimolato l’idea che i nostri facciano parte di un quartetto di gruppi o solisti che negli anni’00 hanno riportato il pop verso quelle vette che da un po’ di tempo erano divenute irraggiungibili, quindi era spontaneo l’accostamento con Sufjan Stevens, Andrew Bird e Rufus Wainwright. Di tutti i Projectors i parevano quelli che trattavano la materia attraverso arrangiamenti non convenzionali per rendere le loro composizioni meno canoniche quindi desuete ed originali.
“Lamp lit prose” è il nuovo album dei nostri, a solo un anno di distanza dal precedente. Il lavoro vede la collaborazione di una fitta schiera di artisti: la consolidata sezione ritmica di Nat Baldwin e Mike Johnson più una serie di artisti, magari non conosciutissimi, ma che si dimostrano fondamentali per il progetto quali Robin Pecknold (Fleet Foxes), Rostam (ex Vampire Weekend), HAIM, Syd (Odd Future) e tanti altri.
Rispetto all’omonimo lavoro precedente che si era calato in una patina mainstream e R&B, dovuto al fatto della frequentazione di Kanye West, Solange e Bjork, la nuova fatica segna un ritorno alle chitarre e alle intricate armonie vocali, riportando la materia sonora verso il proprio marchio di fabbrica.
L’apertura è affidata ad un pezzo bizzarro quale “Right now” a cui partecipa l’ospite Syd. Lo spettro sonoro è ad ampio raggio, splendida melodia pop, armonie vocali eccentriche, arrangiamenti ricchi di tastiere e fiati e ritmiche alquanto algide e glitch.
Non è finita qui perché “Break-thru” ci delizia con un riff che spedisce il nostro spirito in centroamerica a cui fa seguito un falsetto vocale, tanti piccoli microsuoni ed archi sintetici per non lasciare nulla di intentato.
Basterebbero solo queste due tracce per non evitare l’ascolto del disco tali e tanti sono gli input offerti.
In seguito i brani riportano un po’ al lavoro dello scorso anno, come in “I feel enough” in cui sembra di essere catapultati nel Prince degli eighties, oppure alla ballad FM americana anni ’70, ma con una intelligenza ed una classe che in pochi sapevano coniugare (“That’s a lifestyle” e “What’s the time”).
David Longstreth è un fuoriclasse della composizione, dell’arrangiamento e dell’interpretazione. Dopo quattro anni ripartirà anche in tour, se vi è comodo non perdetelo per nulla al mondo!!!


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