La copertina non lascia presagire alcunché di buono, il buon Dan con barbone e camicia aperta fino al petto con microfono dei bei tempi andati sembra più un cantante da balera romagnola che uno dei più interessanti autori di pop indipendente dell’ultimo quindicennio.
Con “Have We Met” Dan Bejar arriva al dodicesimo capitolo della discografia targata Destroyer. Un disco interessante poiché convivono all’interno aspetti peculiari dell’autore insieme a scelte e stacchi rispetto alle precedenti fasi. La formazione che accompagna il canadese non è mai stata così scarna e vede John Collins ai synth, macchine e produzione (cosa che fa da un po’ nei New Pornographers) e il chitarrista Nicolas Bragg. Il cantato spesso è talmente confidenziale che sembra quasi per sé stesso e non per l’ascoltatore. A marcare tale aspetto, il fatto che il canadese abbia registrato la parti vocali in cucina a tarda notte direttamente su Garage Band: ciò che sentiamo nelle tracce finali è il frutto al massimo della seconda take casalinga.
Il lo-fi acustico che caratterizzò l’inizio del gruppo, che venne abbandonato per presentare arrangiamenti più corposi, raggiungendo i momenti più alti con “Destroyer’s Rubies” del 2008, ora è un’elettronica minimale lontana dai fasti 80’s del bel predecessore “Ken”.
Non aspettatevi, però, un disco freddo e cerebrale. L’iniziale “Crimson Tide” fuga ogni dubbio, mettendo in mostra un bel tiro melodico molto attraente che caratterizza il lavoro nel suo insieme. L’opera è fatta da pezzi scritti nel corso del tempo in casa, sul divano, ovunque fosse possibile, ma non avevano ancora trovato la loro giusta collocazione. Non sono però brani in bassa fedeltà, anzi sono ricchi ed opulenti come uscissero da uno studio di registrazione dotato delle migliori tecnologie. Il risultato è un flusso di coscienza che ci rende partecipi della preoccupazione e delle riflessioni per questi tempi moderni. Il timbro vocale, caldo ed ormai marchio di fabbrica del nostro, è in primo piano, mentre la musica che lo accompagna a volte segue percorsi alternativi pennellando atmosfere e umori di oscura intensità e quieta malinconia.
Alcuni momenti sono autentici sketch (“University hill”) altri sembrano il parto di un crooner come “It just doesn’t happen” buoni per ascoltatori di una certa età, poi ci sono un paio di tracce, “The Raven”, la canzone più bella di “Have We Met” insieme a “The Man In Black’s Blues”. Si assiste ad una serie di composizioni che sono libere e destrutturate, un po’ come l’ultimo Nick Cave.
Una raccolta che ci mostra un Destroyer diverso, un disco a sé stante, ma dotato di fascino e da apprezzare nella quiete di casa, stesso luogo che ha visto nascere queste canzoni.


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