Ho amato quest’uomo fin dal primo momento in cui ci siamo incontrati cioè durante l’ascolto di “The river”. Non sto a dirvi che nel più breve tempo possibile andai a completare la sua discografia e, fino a “Nebraska”, era per me un sicuro approdo nella musica di qualità.
Mi piaceva quel suo essere fuori dalle mode, quel suo romanticismo che emanavano i solchi dei dischi, la passione e l’intensità che si percepivano solo a guardare in TV i suoi concerti. Poi accadde qualcosa che mi fece allontanare da lui, forse quel suo tentativo di rendere gli arrangiamenti al passo coi tempi, quindi l’utilizzo di synth e batterie elettroniche molto fastidiose pur in un formato canzone che rimaneva di alto livello, perché, signori, i pezzi erano ancora stupendi.
Ora dopo lungo tempo si ripresenta con un nuovo album di nuove composizioni, e lo fa senza la E-Street Band. Mi piacerebbe analizzare il lavoro senza farmi condizionare dal suo passato, remoto o recente che sia, ma portando a voi le sensazioni che l’ascolto mi ha suscitato.
Credo che ognuno abbia il proprio “Boss” preferito, il mio è quello più oscuro, sofferto e scarno che fa bella mostra di sé in “Darkness on the edge of town” lavoro elettrico e “Nebraska” acustico e con registrazione casalinga.
“Western stars” si presenta con una copertina in cui un cavallo imbizzarrito galoppa verso l’ovest su un terreno desertico con all’orizzonte un cielo a perdita d’occhio cosparso di gigantesche nubi. Una classica immagine di frontiera e cinematografica, forse leggermente patinata. L’opera non assomiglia a nessun’ altra precedentemente pubblicata da Springsteen. Non è un disco di rock e neppure di folk, lo si può definire un album pop e californiano, non nel senso che si rifà ai cantautori anni settanta di quello stato (anche se influenzato da songwriters quali Glen Campbell e Jimmy Webb), ma piuttosto che vuole dipingere una realtà percettiva della grande storia del cinema che si rifà alla frontiera, da John Ford ai film western del grande John Wayne, da Hollywood alle colonne sonore dei film statunitensi anni quaranta.
L’analisi si può distinguere in due parti, quella delle liriche e quella del sound.
Da un punto di vista testuale, le storie raccontate riguardano tutte il west agognato: cowboy alla deriva e bar per cuori solitari (leggermente alla Frank Sinatra di “In the wee small hours”), strade infinite che non assicurano alcun approdo, uno stuntman che sopravvive come meglio può, città desolate, ricerca di solidarietà umana e vasti spazi bruciati dal sole senza opportunità di insediamenti. Da questo punto di vista ci siamo alla grande. Il problema si materializza quando parliamo di suono, con una invadenza orchestrale ed un’enfasi melodica che toglie fascino ai racconti e finisce per soffocare i brani.
“Western stars” è stato registrato, principalmente, nel suo studio privato nel New Jersey, con qualche session in California e a New York. È stato prodotto da Ron Aniello che suona anche il basso, le tastiere ed altri strumenti. Sono della partita la moglie Patti (voci ed arrangiamenti vocali in quattro tracce), Jon Brion (collaboratore di Fiona Apple e Kanye West) alla celeste, moog e farfisa, David Sancious(E-Streeters nei primi due dischi del “Boss”) alle tastiere, Charlie Giordano all’organo e Soozy Tyrell al violino.
Il lavoro si apre con “Hitch-Hikin” in cui il carico orchestrale è davvero eccessivo e raggiunge, quasi, l’insopportabilità mentre Bruce ripete di continuo “I’m hitch hikin’ all day long”.
“The wayfarer” sembra andare nella direzione giusta, grazie ad una chitarra, un piano ed una batteria con battuta costante, ma ecco che l’orchestra fa il suo invadente ingresso. L’omonimo pezzo è ammantato di malinconia, che è sottolineata dalla lap steel, per delle liriche che ci fanno sapere di stivali, canyon, tramonti, bar e John Wayne, ma gli immancabili archi e violini sotterrano l’atmosfera.
“Sleepy Joe’s Café” è una delle canzoni più allegre e uptempo dell’album, in cui è impossibile non battere il piede grazie ai sapienti intrecci di organo elettrico, archi e fiati vagamente mariachi. “Drive fast (the Stuntman)” è un emozionante racconto in presa diretta della movimentata e dolente vita di uno stuntman a fine carriera, i cui versi dicono “Drive fast/ fall hard”(“Guida veloce/cadi duramente)”, atmosfera nostalgica su un tempo lento, potrebbero diventare di culto, oltre ad essere uno dei momenti più attesi del nuovo tour, ma presenta la solita pecca del carico orchestrale troppo ricco.
L’album si chiude con il cortometraggio immaginario di “Moonlight Motel”, mi lascia in uno stato di risentimento per ciò che sarebbe potuto essere ed invece non è. Tempo lento e sofferto e gli arrangiamenti che finalmente sono parchi e misurati, una lap steel triste pennella tratti folk al pezzo e la voce del nostro, profondamente terrena da conto degli stati d’animo di un essere umano. Credo che se le sonorità fossero state di questo tenore starei parlando di un disco di pregevole fattura. Purtroppo rimango con l’impressione di aver perso un autore di cui avevo grande passione e che ora mi muove solo al rispetto!!!


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