Il modo più emozionante per avvicinarsi a quest’etichetta è leggere il blog che Sami Ben Redjeb, il fondatore, ha redatto on the road, durante i suoi avventurosi viaggi in varie nazioni dell’Africa in cerca delle registrazioni delle produzioni musicali indigene dagli anni Sessanta in poi.
Il primo viaggio data 1994, quando Sami parte alla ricerca della musica di un cantante dello Zimbabwe, Oliver Mtukudzi. Questo progetto si trasforma nel suo grande sogno incompiuto, visto che non è mai riuscito a pubblicarlo. Oliver è divenuto una celebrità ed è stato prodotto e distribuito da altri.
È quest’evento che fa nascere in Sami l’idea di fondare lui stesso un’etichetta, per scoprire e condividere la musica di ogni scena locale da cui restasse affascinato.
Ciò che rende l’operato di Sami unico, è il suo approccio nei confronti delle realtà che va conoscendo. Non solo indaga l’aspetto musicale, ma si interessa anche delle vicende dei protagonisti e le racconta nei booklet sempre ricchissimi di notizie e di storie di musicisti spesso rocambolesche ed intrecciate alle vicende socio-politiche dei rispettivi paesi.
Dal punto di vista musicale Sami si trova di fronte a fenomeni di flussi e riflussi di influenze tra svariati generi, come già testimoniato dalla storia della musica degli ultimi cent’anni. Si sa che la musica nera (quindi di matrice etnico/culturale africana) ha avuto un’importanza eccezionale sull’evoluzione della musica occidentale, basti pensare a come si sono sviluppati generi quali il jazz, il blues, il soul, il funk o il reggae, ma quanto questi abbiano di rimando agito sullo sviluppo della popular music africana dagli anni ’60 in poi è forse meno noto.
Un insieme dei generi succitati, più le tante varianti delle musiche caraibiche, nonché del Sud America, hanno contribuito a dar vita ad un fittissimo sottobosco di produzioni locali che anche quando furono successi nelle rispettive nazioni, sono rimaste praticamente sconosciute al resto del mondo.
Queste sono le produzioni che Sami insegue per renderle di nuovo fruibili, visto che per lo più erano registrate su cassetta.

La prima release fu “4-Track Recording Session” dei The Green Arrows, il più importante gruppo dello Zimbabwe degli anni ’70. Prendono i differenti stili ritmici coesistenti nel loro paese e li fondono in un unico sound, il risultato è una musica frizzante di chiare origini tradizionali che il cantato in lingua indigena rende ancor più esotica.
 


Quando la situazione politica dello Zimbabwe diventa troppo pericolosa anche per l’intrepido Sami, egli si traferisce in Benin, dove trova altri tesori nascosti. Dopo tre anni di andirivieni da questo paese e di ascolti di migliaia di tracce, pubblica, con il benestare degli artisti sempre coinvolti come unica controparte, due compilations “African Scream Contest: Raw & Psychedelic Afro Sounds from Benin and Togo 70s” e “Legends Of Benin – Afro Funk, Cavacha, Agbadja, Afro​-​Beat”, e quattro album della più famosa band del Benin, l’Orchestre Poly-Rythmo de Cotonou.
 


Sono più di dieci anni che Sami ha dato vita alla sua etichetta, ed ora ha un suo seguito. Spesso lo trova in giro per il mondo a presiedere dei dj set in cui propone le musiche e gli artisti che ha trovato e che continua a cercare, non solo in Africa.
Presentiamo qui una delle uscite più recenti, la numero 27 dell’etichetta, “Dur Dur of Somalia – Volume 1, Volume 2 & Previously Unreleased Tracks”.
La storia parte dal 2007 quando Sami ascolta sul web i contenuti di una cassetta di musica somala che lo impressiona a tal punto da voler cercare gli ignoti fautori del non meglio identificato somali mystery funk. L’unica informazione sulla tape che Sami trova tramite i contatti web, è che su di essa erano ancora leggibili alcuni caratteri stampati, Iftin. Quando Sami contatta il cantante della leggendaria Ifitin Band e gli manda una canzone per il riconoscimento, Mahmud Abdalla Hussein gli risponde che non son loro, ma che riconosce la voce di Sahra Dawo, e che quindi dovrebbero essere i Dur Dur.
A lungo il mistero delle lettere impresse sulla tape ha tormentato Samy finché, finalmente, nel 2016 si reca a Mogadiscio per risolvere la questione. Dopo lo shock di doversi muovere solo sotto scorta, coadiuvato dalla sua ospite e garante, una ex giornalista ora consigliere politico, inizia l’esplorazione dei luoghi di Mogadiscio in cui si produceva e vendeva musica, e parlando con gli attuali addetti ai lavori scopre che c’erano tre etichette attive negli anni Ottanta, ed Iftinphone è il nome di una di esse.
E così, finalmente Sami capisce che le lettere stampate non erano il nome della band, ma quello dell’etichetta. Il passo successivo è quello di trovare uno dei Dur Dur, ma la voce che a qualcuno interessa la musica dei Dur Dur corre più veloce nelle strade di Mogadiscio che sul web, così viene contattato da un emissario di Shimaali Ahmed Shimaali, uno dei cantanti della band.
Shimaali e Sami si conoscono, e il primo racconta con dovizia di particolari la genesi e la storia di Dur Dur (ruscello, in lingua somala), le due epoche della band, tutti i numerosi avvicendamenti e come son arrivati ad essere la band residente del più lussuoso hotel di Mogadiscio.
Dal punto di vista musicale, non hanno sempre avuto grande libertà espressiva, le autorità non volevano che il loro sound fosse troppo legato alle musiche rituali e tribali, visto che si rivolgevano ad un’audience occidentale o appartenete alle classi sociali più alte. Doveva essere musica da ballare, da intrattenimento.
I brani sono cantati in somalo, e le musiche sono un intreccio di diverse componenti ritmico-melodiche tradizionali con ritmiche dance, funk, reggae, soul e disco.
Il volume n. 1, del 1986, guarda più al reggae, il n. 2, del 1987, suona più funk e disco.
Musica da ballare, ma di altissima qualità.
 

Lunga vita alla Analog Africa, perché non è solo un’etichetta, ma è l’attitudine stessa di Samy Ben Redjeb verso la musica.


 

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